Mio padre Virginio Ranzoni è morto nel novembre del 2005 per insufficienza respiratoria causa una broncopolmonite, ma da anni era stato colpito dal morbo di Alzheimer. Questo lo rendeva cupo, ombroso, non riconosceva più i famigliari, lo rendeva sospettoso con tutti e per tutto. Nell’ultimo periodo della sua vita, in ospedale, c’era una cosa sola che lo calmava: parlare con lui della sua gioventù. Allora gli occhi si illuminavano e ricordava. Ricordava soprattutto la chiamata alle armi nel 1939, il periodo a Vercelli nel 1° Reggimento Artiglieria Contraerea, la difesa di Torino, dei primi giorni di guerra in Jugoslavia e il trasferimento a Napoli per l’attraversata del Mediterraneo destinazione Libia. E piangeva, piangeva parlando di Tripoli, Bengasi, Tobruck, El Alamein, della resa, delle ingiurie e percosse subite dai Francesi a Tunisi, della fuga dal campo inglese, della resa definitiva alle truppe statunitensi.
Prima del suo ricovero in ospedale, quando andavo a trovarlo a casa, per calmarlo, aprivo una vecchia cartelletta che conteneva documenti vari del suo periodo di prigionia: nel vederli, con le molte foto che aveva conservato, si calmava e raccontava del periodo passato a Casablanca in attesa dell’attraversata dell’Atlantico, dello sbarco al molo 72 a New York, dell’impressione che ebbe nel vedere la Statua della Libertà, dei grattaceli, degli italo-americani che erano assiepati dietro le transenne ad assistere allo sbarco dei prigionieri italiani, del treno che lo portava a Monticello e dei campi di cotone dell’Arkansas, della vastità di quel territorio, della Pennsylvania e del campo di Letterkenny a Chambersburg, di come gli abitanti di quei luoghi trattavano i prigionieri con umanità.
A quel punto anch’io ricordavo. Ricordavo quando da bambino mi piaceva farmi raccontare delle sue avventure soprattutto a pranzo con i suoi amici dell’epoca, Albertoni e Ramella (quest’ultimo, sarto, confezionò il suo abito per il matrimonio), di quando dopo l’8 settembre 1943 si trovò a decidere se collaborare con il governo Alleato o rifiutare la collaborazione, della difficile situazione, di come lui si sentì tradito per essere stato inviato in guerra in modo inadeguato, di come la possibilità di rendersi utile, alla fine di un conflitto tremendo, lo portarono a far parte del 321st Italian QuarterMaster Battalion (Italian Service Unit) della base di Letterkenny. Mi spiegava queste cose in modo serio cercando le migliori parole per farmi capire la situazione.
E poi gli si apriva il cuore nel ricordare la vita a Letterkenny, del lavoro nella base che forniva il materiale logistico per le truppe statunitensi che combattevano contro i Giapponesi. Mi mostrava i permessi che aveva conservato, con orgoglio l’encomio per il lavoro svolto che gli fu rilasciato quando venne organizzato il trasferimento in Italia nel 1945, e le fotografie con gli amici di allora. Ma soprattutto quelle fotografie delle squadre di calcio del campo e un articolo del Progresso Italo-Americano che celebrava la partita giocata contro la Juventus New York.
Negli USA molti degli italiani scoprirono il baseball, mio padre diceva che era la “lippa-stelle-e-strisce” (un gioco popolare milanese), ma l’attività sportiva nei campi era soprattutto imperniata sul calcio, la pallacanestro, la pallavolo e le bocce con l’YMCA, la Croce Rossa e la Chiesa Cattolica che fornivano le attrezzature necessarie.
Se a Monticello non c’erano grandi possibilità di poter svolgere una vera e propria attività a sportiva, al contrario a Letterkenny le sei compagnie (82nd. 83rd. 84th. 85th. 86th. 159th.) del battaglione avevano tutte una propria squadra di calcio (lui era l’allenatore della 82nd.) che si affrontavano in accese sfide, che talvolta degeneravano, per contendersi il titolo nel campionato della base. Pare che molti dei ricoveri nell’ospedale del campo furono causati da traumi riportati durante le partite.
Ma importante fu la sfida del 24 Giugno 1945: a Letterkenny, proveniente da Manhattan, arrivò la Juventus New York di Tony Puricelli. Puricelli, un nome che nei ricordi di mio padre ritornava in mente poiché, da tifoso del Milan, lo collegava ad Ettore Puricelli, giocatore e poi allenatore della squadra milanese degli anni ’50, era l’animatore del calcio a New York. Contattato dal delegato apostolico mons. Cicognani, accolse con grande entusiasmo la possibilità di affrontare la compagine che rappresentava la base. Quella partita, dove mio padre risultò essere uno dei selezionatori della “nazionale” del campo, fu decisamente un evento di prestigio per i nostri connazionali. Tutti vollero parteciparvi anche da spettatori quasi fosse la finale di un Mondiale.
Nei momenti liberi, dopo il lavoro e nei fine settimana, i cooperatori potevano dedicarsi alle attività preferite, tra cui lo sport, la musica, l’artigianato. Per quanto riguarda lo sport il calcio faceva la parte da leone. Gli incontri erano frequenti e furono organizzati anche veri e propri tornei. Circa la musica furono creati un’orchestra, una banda e un coro. Nei fine-settimana gli amanti del ballo si potevano esibire con le donne italo-americane che venivano con le famiglie in visita al campo. Qualcuno passava il tempo costruendo, con pazienza certosina, modellini di navi.
La partita terminò 1 a 0 per i “soldati”, mio padre ricordava che fu uno della 83rd. a segnare ma soprattutto, quello che commosse vincitori e vinti, fu il gesto del capitano della squadra di Letterkenny che, al momento di ricevere la coppa messa in palio, dalle mani del Tenente Colonello Colbert, comandante la base, la donò al capitano della Juventus a ricordo di quel giorno.
Nessun almanacco del calcio riporta questa partita, resta solo l’articolo del Progresso ItaloAmericano che, purtroppo. riporta solo i nomi dei giocatori della squadra di New York: anche se la guerra in Italia era terminata, gli italiani della base erano sempre e comunque dei prigionieri, e vigevano leggi severe per quello. Forse anche nelle altre basi dell’Italian Serve Units si giocarono veri e propri campionati, partite contro squadre di americani e nostri immigrati, ma pare che solo di questa esista una testimonianza giornalistica. Letterkenny, divenne qualcosa di cui essere fieri.
Non so chi di quella squadra newyorkese sia ancora in vita dopo 70 anni, forse qualche figlio o nipote dei vari Rondanini, Ieraci, Di Falco o Bisiani hanno tra i ricordi dei loro cari una foto di quella partita. Chissà poi la coppa dove è finita.
A papà che pur avendo il grande desiderio di ritornare a vedere i luoghi dove aveva combattuto in Africa, sarebbe sempre piaciuto rivedere la Pennsylvania, magari anche incontrare qualcuno della Juventus New York per rivivere quella giornata che per lui, e per tutti coloro che erano a Letterkenny, divenne qualcosa di cui essere fieri.Non è riuscito nel suo desiderio, ma quel ricordo lo faceva stare bene, chissà cosa gli passava nella sua mente oramai devastata da quel male incurabile, si rivedeva con la divisa americana che portava sulla manica lo stemma “Italy”, si rivedeva con la maglia della squadra, si rivedeva giovane di grandi speranze e certezze.
Edoardo Ranzoni
Nota: tra i giocatori della squadra che sconfisse la Juventus di New York ricordiamo Antonio Tascione (che segnò il goal della vittoria), Donato Pietra (quando giocava portava sempre una fascia bianca in testa), Angelo Barcella, Guglielmo Apostoli, Antonio Coin, Francesco Grossi, Eugenio Fortunati e Cesare Pesaresi
Tuttavia, il malessere per la lunga detenzione, la malattia del “filo spinato” (soprattutto nei periodi di restrizione dei privilegi e delle libere uscite), la lentezza della corrispondenza e la mancanza di notizie da casa si fecero sentire anche a Letterkenny. Numerosi prigionieri soffrirono di turbe psicologiche.
Proprio per non pensare allo stato di prigionia e alle sorti dell’Italia i prigionieri cercavano di tenersi occupati il più possibile o cercavano conforto nella fede.
I prigionieri del 321° battaglione rimasero a Letterkenny 17 mesi (da maggio 1944 a settembre 1945).
Flavio G. Conti e Alan R. Perry, Italian Prisoners of War in Pennsylvania, Allies on the Home Front,1944-1945, Madison, NJ, Fairleigh Dickinson University Press, 2016;
Flavio G. Conti e Alan R. Perry, World War II Italian Prisoners of War in Chambersburg, Mount Pleasant, SC, Arcadia Publishing, 2017;
Flavio Giovanni Conti e Alan R. Perry, Prigionieri di guerra italiani in Pennsylvania, 1944-1945, Bologna, Il Mulino, 2018.