Presso la sede nazionale dell’ANRP è stata inaugurata il 24 giugno la Mostra fotografica “Prigionieri di Guerra Italiani in Pennsylvania, 1944/45”, un percorso documentale frutto di un’accurata ricerca riportata nell’omonimo volume scritto dallo storico Flavio Giovanni Conti e dal Prof. Alan R. Perry, presentato contestualmente nel corso della cerimonia di apertura.
In veste di Segretario generale è stata affidata allo scrivente la conduzione dell’incontro a cui erano presenti i due Autori. Nel pubblico che affollava la sala, numerosi erano i familiari di POW del campo di lavoro di Letterkenny, Chambersburg – Pennsylvania – Stati Uniti. Venuti da tutta Italia, lieti di ritrovarsi, proprio loro sono stati i veri protagonisti dell’evento, con il loro desiderio di comunicare ai ritrovati amici le ultime novità scoperte sui propri parenti, rinvenute a volte per caso tra lettere e documenti ingialliti dal tempo. È questa, per loro, una ricerca continua, finalizzata a condividere il bello che è derivato da questa atipica prigionia, che ha generato non solo amicizia tra i prigionieri e gli italo-americani a suo tempo, ma è stata incredibilmente tramandata alle nuove generazioni che vogliono capire e soprattutto consolidare questo vincolo di solidarietà nato più di settanta anni fa.
Nel dare il benvenuto al presidente dell’AMPIL, Antonio Brescianini, e ai due Autori, colpito da questa atmosfera di rinnovamento di un’esperienza pur così lontana nel tempo, il sottoscritto ci ha tenuto a sottolineare che la sede dell’Associazione era proprio il luogo ideale per realizzare tale incontro, nella considerazione che la missione principale dell’ANRP è soprattutto quella di custodire la memoria dei prigionieri di guerra per tramandarla alle nuove generazioni, in un rinnovato spirito di solidarietà sociale. Come premessa alla Mostra, ha poi tracciato una sintesi del contenuto del libro, che racconta le varie fasi della prigionia: dalla cattura, all’arrivo negli USA, dalla vita nel campo di lavoro, fino al rimpatrio.
La maggior parte dei POW di Letterkenny erano bersaglieri, catturati tra marzo e maggio del 1943 in Nord Africa. Le numerose testimonianze riportate raccontano di comportamenti umani e non violenti da parte dei soldati americani, tanto che per tutti i militari italiani Letterkenny rappresentò di fatto la fine della guerra.
L’arrivo negli Stati Uniti fu per loro qualcosa di indimenticabile. Stupefatti dall’abbondanza, dall’organizzazione e dall’efficienza del sistema americano, fu come un sogno, si sentirono fortunati. Lo scrivente ha fatto notare come gli Autori, nel ricostruire la storia, hanno privilegiato il racconto diretto dei protagonisti, riportando fedelmente le loro testimonianze e rimanendo quasi osservatori “esterni” di fronte alla meraviglia espressa dai prigionieri che, invitati dalle autorità statunitensi, senza un accordo formale con quelle italiane, a cooperare anche con false promesse, davanti a tale “perfetta” organizzazione non riuscirono per la maggior parte a rifiutare.
A Letterkenny cooperarono più di 1200 prigionieri. Tuttavia, a fronte di questi positivi riscontri dati direttamente dai cooperatori, le autorità statunitensi non concessero loro alcuno sconto dal punto di vista giuridico; essi, anche dopo l’Armistizio, rimasero prigionieri di guerra, in violazione della Convenzione di Ginevra del 1929, a causa anche dell’ambiguità politica del Governo italiano.
Dalla descrizione dei prigionieri italiani, a cui si affidano puntualmente gli autori, si apprende che Letterkenny non era un vero e proprio campo di prigionia, ma un enorme deposito di armi e materiale delle forze armate americane, di cui essi, con il loro lavoro e la loro tenacia, contribuirono in maniera determinante al funzionamento. La mastodontica capacità organizzativa colpì molto i nostri soldati che si trovarono in un ambiente di lavoro cordiale e collaborativo, anche perché selezionati con molta accortezza per evitare la presenza di fascisti. Formarono quindi un gruppo omogeneo, affascinato dalle regole democratiche americane, considerate “impressionanti e sconosciute” a giovani cresciuti durante il ventennio fascista.
L’opinione pubblica americana, in generale, non condivise il trattamento di favore riservato ai POW italiani, nonostante le iniziative delle Autorità militari volte a mettere in risalto il prezioso contributo da essi fornito alla Comunità. Ciò nonostante si creò un clima costruttivo grazie a due fattori essenziali: il rapporto con gli italo-americani e il ruolo determinante della Chiesa che incoraggiò a collaborare. Così nacque quel profondo legame umano con gli italo-americani, cementato dalla solidarietà e dalla riconoscenza per aver trasformato la dura mancanza di libertà in un intimo vincolo fraterno pervenuto intatto fino ai giorni nostri.
Arrivò alla fine, in ritardo, il rimpatrio. Da Letterkenny iniziò nell’autunno del 1945 e quando i reduci giunsero in Italia, come per tutti gli altri prigionieri fu una grande delusione, presto rimossi dalla memoria e dimenticati. Però, se per tutti rimaneva solo l’aiuto delle famiglie, finalmente riunitesi, per quelli di Letterkenny c’era qualcosa in più, l’amicizia nata nel campo.
Sulla base di questi nobili sentimenti, Brescianini, visibilmente commosso, ha voluto riaffermare tutto questo, soffermandosi sulle emozioni che ancora oggi i ricordi dell’esperienza della prigionia destano sui figli e ancor più sui nipoti, auspicando una diffusione di questi valori. Ogni volta “incontrarci”, ha poi aggiunto, “è come rivivere le stesse emozioni di amicizia e solidarietà dei nostri padri, dei nostri nonni”.
A loro volta, i due Autori loro si sono soffermati su altri aspetti della prigionia, dando completezza di informazioni sia sulla mostra fotografica, sia sui contenuti del libro.
La presentazione di Alan Perry è stata ricca di emozioni, di storie vere e di sentimenti; ha raccontato una toccante storia d’amore tra un prigioniero e una ragazza italo-americana con risvolti romantici e difficoltà di comunicazione, tipici del periodo storico e dei relativi costumi sociali e culturali del tempo. Conti, invece, confermando la sua abilità di ricercatore, di “esploratore d’archivi”, è entrato nella quotidianità della vita dei prigionieri, raccontando aneddoti, abitudini e curiosità che portarono al graduale adattamento alla vita lavorativa del campo, imparando anche un mestiere.
In particolare, gli Autori hanno voluto confermare la convinzione che la cooperazione dei prigionieri di Letterkenny è stato un servizio utile all’Italia per le ricadute in termini di democrazia e libertà; alcuni di essi infatti l’hanno definita una “palestra di vita”. Il testo riporta anche le ambiguità di entrambi i Governi, le contraddizioni e le incongruenze, come per esempio la non decisione sullo status dei prigionieri o la decisione di costituire le Unità lavoro. Su questo punto gli autori non si sono troppo soffermati, preferendo invece esaltare il rapporto umano e la solidarietà che, malgrado tutto, sono emersi da una dura esperienza.
La loro scelta premia gli sforzi individuali dei prigionieri, chiari e trasparenti, la loro forte volontà di cambiare, di superare un periodo buio senza riferimenti istituzionali a dispetto delle ambiguità politico-militari delle autorità governative; una forma concreta di impegno, con il lavoro, di forza morale per cambiare le loro prospettive; scelte che contribuiranno poi alla ripresa economica e sociale dell’Italia post bellica.
Alla fine dell’incontro, il pubblico si è soffermato a visionare con interesse ed attenzione ciascuno dei dodici pannelli illustrativi della Mostra che delineano in modo particolarmente efficace l’aspetto socio-psicologico del vissuto esperienziale e soprattutto dei rapporti con la comunità locale. Vivaci sono le scene di vita quotidiana (sport, musica, religione), le lettere scritte ai familiari, i documenti, ma ancor più lo sono le foto che testimoniano con grande delicatezza la nascita di relazioni sentimentali, di storie d’amore, un mondo anche “al femminile” che fu uno dei caratteri peculiari di questa prigionia.
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