Famiglia Cristiana N. 24/2018 di Katia Fitermann
«Salvami Madonnina Beata, alla casetta tanto amata. Fammi un giorno ritornar». Lorenzo Lisci, 61 anni, operatore della Caritas di Firenze, sentiva spesso canticchiare in casa questo motivetto da suo padre Nello, che era stato prigioniero di guerra negli Stati Uniti nel campo di detenzione di Letterkenny, nei pressi di Chambersburg, in Pennsylvania, tra il 1943 e il 1945. «Quando in famiglia ci raccontava della sua cattura e della sua deportazione le descriveva come una tenera fiaba a lieto fine, senza mai addentrarsi nei drammatici particolari vissuti all’interno del campo». Un giorno Lorenzo riceve una lettera firmata da Antonio Brescianini, che chiede di incontrarlo per raccontare la storia di suo padre. «Ho provato un’enorme emozione nel vedere le immagini di papà nel fascicolo dei prigionieri di guerra in America e nell’apprendere la notizia che lui, come molti altri prigionieri italiani, aveva partecipato alla costruzione della chiesa della Pace di Letterkenny. Perché le guerre portano solo distruzione e il miracolo è vedere rinascere dalle macerie questo segno di resurrezione».
I prigionieri a Letterkenny pregavano in un capannone all’interno del campo. Cercavano un poco di pace e conforto, lontani dai familiari, ma non bastava. Da qui l’idea di costruire una chiesa per sopportare meglio la reclusione. Così i 1.200 militari internati del 321esimo battaglione italiano, dalla primavera del 1944, hanno iniziato la costruzione del tempio utilizzando materiali di scarto di vecchie fattorie abbandonate. L’idea era nata dal comandante del campo, il maggiore Angelo Bassi, mosso a compassione per la disperazione di uno dei prigionieri che in Italia aveva perso la moglie sotto le bombe. La vita eterna che sconfigge la morte era la sola soluzione. Costruire quella chiesa era anche un modo per sfuggire alla disperazione della detenzione stessa, ai traumi provocati dalla guerra e all’angoscia per i familiari rimasti in patria.
A fianco dei prigionieri, nel suo ruolo di nunzio apostolico negli Stati Uniti, c’era Monsignor Amleto Cicognani, in seguito cardinale segretario di Stato Vaticano di Giovanni XXIII e Paolo VI. Monsignor Cicognani veniva spesso nel campo dei prigionieri italiani per aiutarli, incoraggiarli, sostenerli non soltanto spiritualmente ma anche umanamente, assicurando inoltre la comunicazione, all’epoca molto difficile, tra i detenuti e le proprie famiglie. Cicognani trasferì poi la documentazione relativa ai militari nell’Archivio Vaticano.
La detenzione degli italiani internati a Letterkenny durò 17 lunghi mesi. La bella chiesa dalle arcate romane, con un campanile che si ispira a quello di Giotto, venne consacrata dallo stesso monsignor Cicognani il 13 maggio del 1945 e dichiarata poi monumento storico.
Da quasi tre anni Antonio Brescianini, ex sindaco di Vimodrone, in provincia di Milano, e presidente dell’Ampil (Associazione per la memoria dei prigionieri italiani a Letterkenny), figlio di Luigi, uno dei reclusi del campo, insieme con lo storico Flavio Giovanni Conti è alla ricerca di tutti i familiari dei militari portati in quel campo. Il progetto nacque dall’interesse sorto a Chambersburg per rendere onore ai prigionieri italiani nel 70° anno dalla costruzione della chiesa della Pace. Conti ha curato la ricerca storica negli archivi militari italiani e statunitensi e in quelli vaticani, mentre Brescianini si occupa di ritrovare i familiari dei prigionieri nei diversi Comuni dell’Italia. Ad oggi sono state rintracciate 420 famiglie e tre ex detenuti sono ancora viventi.
La grande famiglia dei discendenti dei prigionieri di Letterkenny cresce continuamente, con l’aiuto di 600 Comuni che attualmente collaborano alla ricerca. Lo storico Conti e il professor Alan R. Perry hanno anche pubblicato negli Stati Uniti due libri sulla vicenda del campo di concentramento degli italiani, di cui uno fotografico.
«Da alcuni nomi scritti da mio padre nel suo diario e da quelli contenuti in un foglio “spiegazzato” in possesso di Luisella Volpi, figlia di un altro prigioniero, Renato, e soprattutto grazie ai documenti faticosamente trovati dallo stesso Conti negli archivi militari di Roma e del Vaticano, siamo riusciti a contattare molte famiglie», conclude Brescianini. «L’opportunità di conoscere i familiari mi ha permesso di vivere un’esperienza unica. A ognuno di questi sono riuscito ad assegnare un volto, una storia personale, spesso condivisa, e questa emozione si rinnova con l’individuazione di nuovi militari italiani, grazie anche al sostegno nella ricerca fornito da Sara De Giorgis, nipote del prigioniero Pietro Bracchi». Dalla storia dei prigionieri di Letterkenny il professor Conti ha anche realizzato una mostra fotografica itinerante in Italia che il prossimo 16 giugno sarà a Mozzecane, in provincia di Verona, portando un messaggio di pace diretto soprattutto alle giovani generazioni.
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